Quando ho cominciato a leggere i primi blog di mamme e babbi e ho aperto il mio, ricordo che avevamo quasi tutti bimbetti neonati o comunque in età prescolare e avevamo in comune, a prescindere dalla provenienza, dal reddito e dal titolo di studio, una sensazione di solitudine e di overload difficile da spiegare. Due stati d'animo nati nel momento stesso in cui abbiamo avuto il neonato tra le braccia. Pazzesca la dicotomia tra l'avere improvvisamente un'appendice fatta di carne, ossa e strilli e la sensazione di essere soli al mondo, vero? Eppure. E così il senso sovraccarico. Sembra scontato, ma no, ci vuole un neonato per sapere cosa significa lavorare 24/7, con la prospettiva di non mollare un attimo per i successivi molti anni. Poi a un certo punto tutti abbiamo cominciato a parlare di indipendenza, quando li abbiamo visti varcare la soglia dell'asilo, tutti impettiti nel loro grembiulino e il loro minuscolo zainetto. Abbiamo fatto un passo indietro con l'inizio
Sia messo agli atti che il titolo non è propriamente provocatorio. Ho appena inventato la corrente filosofica del “negative thinking” non tanto perché credo nel valore della negatività, quanto perché considero limitante il “positive thinking” ma soprattutto l'“andratuttobenismo”. Occorre un’importante precisazione: dagli aggettivi negativo e positivo vanno espunti i giudizi di valore, nel mio ragionamento. Quindi positivo è semplicemente il polo +, e negativo è il polo -. Il polo + è concentrarsi sugli aspetti della vita che evocano sensazioni che definiamo di benessere, ed è anche una visione delle cose edulcorata dalla speranza. Vi cito Antigone di Sofocle: La molto errante speranza a molti è di aiuto; per molti invece è solo inganno, impulso di menti leggere; si insinua in chi nulla sa, prima che il fuoco ardente gli bruci il piede. Fu saggio chi pronunciò questo detto famoso: a volte un bene appare male a colui la cui mente un dio vuole portare a rovina. Breve è il tempo