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L'Aquila e poi

Con Barbara e Fausto ci siamo incontrati in una lugubre L'Aquila un mezzogiorno di agosto, ma i loro occhi, a differenza dei miei a di quelli attoniti delle bambine, non vedevano solo i palazzi sventrati e la sfilata di impalcature; i loro occhi ricordavano la vita su quei corsi e scorgevano sprazzi di ricostruzione.

Mi hanno dato appuntamento di fronte a San Bernardino, la chiesa degli aquilani. Tirata a lustro, era in corso un matrimonio.

Da San Bernardino si vedono le montagne, e una lunga e ripida scalinata che tradisce la vita che c'è stata.
A differenza dei paesi circostanti, pure colpiti dal terremoto del 6 aprile 2009, L'Aquila odora di calcestruzzo, brulica di operai, offre agli occhi uno skyline di gru e inscena un principio di ricostruzione, grande business. Anche se in centro, la grande maggioranza dei palazzi è completamente inagibile.
Di questa vacanza, sei giorni tra aquilano e Gran Sasso, mi rimane, oltre a risate e amici che io e le bimbe teniamo ben stretti al cuore, il senso di precarietà: una casa non è per sempre. Neanche nel tuo personalissimo persempre, che immagini statisticamente fino ai tuoi ottanta, ottantacinque anni.
L'Aquila non è per sempre.

Navelli non è per sempre.
Navelli è un incantevole paese (dove non ho visto neanche UN turista, ma del resto, in questi giorni nell'entroterra abruzzese, di turisti ne ho visti ben pochi) il cui centro storico è stato abbandonato dai migranti. E salirlo fino al castello ed esplorare le vie vuote, è stato come chiudere il cerchio di quel corso, all'università, sull'emigrazione degli italiani in America Latina. Dieci anni fa li ho immaginati sbarcare nei grandi porti, con il vestito buono e la valigia di cartone, fondare sindacati e imprese e club calcistici, essere chiamati Mangiaspaghetti, mettere al mondo bambini argentini, brasiliani, paraguaiani; ho immaginato il nonno di un'amica argentina vedere la luce in nave, tra Catanzaro e Buenos Aires; e ora, esplorando Navelli, li ho visti partire, vendersi le travi della casa paterna per raggranellare qualche soldo, o lasciare tutto intatto, pensando di tornare.
In cima a Navelli, mentre guardavamo le colline, dal portico della chiesetta, abbiamo sentito un grido di neonato. Non tutti se ne sono andati.

borgo abbandonato provincia L'Aquila

Non sono state per sempre le chiese rurali e le case dei pastori che transumavano con le pecore lungo i tratturi e passavano l'inverno lontani dalle loro donne, che finivano per parlare un dialetto diverso, incontaminato, arcaico; e dai figli, che nascevano tutti tra marzo e maggio, con animalesca ciclicità.

Chiesa di Centurelli

Non è stato per sempre Peltuinum, insediamento romano abbandonato (pare) dopo un terremoto, nel IV secolo a.c.

sito archeologico Peltuinum

Non è stata per sempre la grande casa di Barbara ad Ofena, piena di stanze che si susseguivano l'una dopo l'altra, come nel mio sogno ricorrente, che mi trasferisco in questa casa un po' triste ma poi la visito in un crescendo di felicità perché è enorme, e piena di stanze, e mi sveglio senza essere riuscita a vederle tutte.

Non saranno per sempre le casette dove vive da sei anni qualche terremotato, quelli che non hanno avuto alternative.

Queste vacanze hanno avuto il colore bianco e sabbia dei mazzetti di case tra le colline dai terreni sassosi e le piccole piane coltivate; hanno avuto il sapore del pecorino, degli arrosticini e dell'acqua che sgorgava bianca e gustosa un po' ovunque; hanno avuto l'odore dei pomodori che abbiamo trasformato in passata, un po' per noi, un po' per chi torna ad Amsterdam, che là mica sono così rossi e dolci e succosi.

Di questa vacanza mi rimane la luce negli occhi di chi ci ha portato a visitare borghi e luoghi piuttosto sconosciuti: lo splendido oratorio di San Pellegrino a Bominaco, il castello di Capestrano, il campanile di Fontecchio.
Ora sto leggendo Statale 17, un viaggio nell'aquilano inginocchiato e nei ricordi. E così queste vacanze così intense non sono ancora finite.

Commenti

  1. Sono stata lì post terremoto, con i vigili del fuoco che ci scortavano nella ex casa del mio ragazzo.

    Una fitta al cuore.

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    1. velo pietoso sul ruolo di militari e autorità varie.

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  2. Questo post mi fa riflettere tantissimo. Mi si è ristretto lo stomaco, perché ho pensato a quel 6 aprile di sei anni fa, dove all'inizio non ho capito cosa stesse succedendo, solo un continuo susseguirsi di edizioni straordinarie dei tg in tv e tanta confusione.
    Poi ho somatizzato quelle crepe terrene dentro di me e ho provato, senza successo, a immaginare che dolore si potesse provare. Ma il terremoto, così come tutte le ferite, ha un dolore del tutto personale, che solo chi vive in prima persona può capire e sentire.
    E niente, non so perchè, ma ho pensato che c'è un'Italia dimenticata, o quasi. Ed è quella che tu hai descritto in questo post, quella di quei luoghi ancora sanguinanti di polvere e macerie.

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    1. Quest'estate mi sono accorta che c'è un'Italia dimenticata, che non è solo quella insanguinata, ma anche quella poco alla moda. Un peccato e un privilegio allo stesso tempo.

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  3. Bello vederlo con i tuoi occhi

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  4. se non la piantate di spargere in giro queste mie foto tremende io il prossimo anno la passata me la faccio da sola :-)

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